RACCONTAMI LA MIA STORIA

Quando si impara ad ascoltare la narrazione delle storie?

Difficile pensare che i racconti prima di essere parole siano sensazioni, intuizioni, pensieri e solo poi parole.

Tutto il corpo viene coinvolto in questo ascolto e inizia quando inizia la vita.

La storia individuale attraversa le generazioni e si allunga di nascita in nascita creando un filo fra le persone che si arricchisce grazie alla storia di ogni singolo nato, e per quanto la gestazione sia un periodo sospeso e di attesa, è anche un periodo nel quale ci si sente parte di una grande famiglia che cresce.

“Nelle gestanti, la percezione corporea di contenere riattiva quella di essere state contenute, l’aver dentro suscita il ricordo dell’essere stato dentro, un ricordo che rinvia alla propria madre, per cui i tempi della gravidanza sono tre: passato, presente e futuro.” (Silvia Vegetti Finzi)

E allora è importante che la storia del bambino abbia spazio già nel pensiero degli adulti, dei propri genitori, che durante la sua attesa immaginano, pensano, fantasticano proiettandolo nel futuro per poi tornare al presente, pronti per l’incontro con il bimbo, che da immagine diventa reale.

“Il figlio tanto atteso, il bambino nella testa, fatto di immagini cangianti ed evanescenti, da quando ha trafitto il suo corpo non sarà più un possesso esclusivo ma una presenza autonoma un essere indipendente che vive in lei i grazie a lei ma non gli appartiene.” (Silvia Vegetti Finzi)

Raccontami com’ero quando ero piccolo, ma non una volta sola, tante volte e poi raccontami ancora.

Il bambino ascolta la sua storia che lo trasporta nel suo ambiente familiare. La storia crea un senso del tempo che dal passato gli permette di guardare al futuro con meno apprensione, diventerai grande come il tuo papà o la tua mamma.

La rassicurazione di essere accudito e guidato dallo sguardo dei genitori che sanno significare le cose che accadono e ascoltando la condivisione delle loro esperienze, gli permette di sentirsi sicuro e di dirigere lentamente lo sguardo verso il mondo con curiosità crescente.

La comunicazione che all’inizio della vita passa attraverso il contatto corporeo si arricchisce di parole. All’inizio sono parole di cura, e poi diventano le storie della buonanotte, poi le storie di paura, poi le storie dei supereroi o delle principesse e poi le storie autobiografiche e infine le storie del bambino che raccontano il suo mondo, le scoperte e le emozioni.

Le parole e i racconti diventano un utile strumento per incontrare l’altro, per mettere ordine nei pensieri, per fare progetti e per creare una distanza dalle emozioni.

Il bambino passa dalla rabbia nei confronti dell’oggetto alla costruzione di progetti per sé o con i coetanei.

Facciamo la pista del treno che supera il ponte e poi gira, poi c’è la galleria e poi la stazione.

….e poi al gioco non si arriva perché in realtà il gioco vero è la costruzione stessa del gioco, raccontandolo e poi disegnandolo.

“Attraverso le nostre storie personali, il racconto dell’esperienza della nostra vita, possiamo sviluppare la conoscenza e la comprensione che abbiamo di noi stessi e dei nostri rapporti con gli altri.” (D.J.Seigel – M. Hartzell)

Il racconto autobiografico, quindi, risponde al bisogno profondo del bambino di comprendere sé e la realtà che lo circonda, gli adulti costruiscono per lui gli  strumenti per facilitargli la comprensione dei suoi vissuti e delle sue emozioni, scegliendo parole semplici e adatte alla sua giovane età.

Quando eri piccolo e il papà andava al lavoro ti vedevo molto triste, a volte era molto difficile aspettare il suo ritorno, ma c’erano tante cose da fare e la tristezza passava, perché la tristezza è un po’ così, arriva e sembra che non passerà mai, ma passa. Meno male!

Il bambino si sente compreso e riconosciuto, può finalmente affrontare lo smarrimento di non saper dare voce alle sensazioni attraverso le parole suggerite dalle figure di riferimento e dalle immagini che esse suscitano.

Inizia a riconoscersi come protagonista delle sue esperienze, una dopo l’altra, anche se non ne è consapevole, fino alla costruzione di un’identità individuale che lo definirà come persona.

La storia racchiude, quindi, il senso di chi siamo e se raccontata ad alta voce diventa la nostra base sicura a cui far ritorno quando lo sentiamo necessario.

CERTE VOLTE LA PALLA MI FA PROPRIO ARRABBIARE!

Il gioco, agli occhi degli adulti, sembra proprio il laboratorio dove l’impossibile diventa facile ma non è sempre così.

L’ambiente e gli oggetti non sono facili da conoscere, non cambiano e non si modificano seguendo il desiderio del bambino. Gli oggetti rimangono fieramente intatti anche di fronte alle più sincere proteste dei piccoli.

Tuttavia, sono degli alleati preziosi per spiegare in modo semplice la complessità dell’ambiente nel quale viviamo.

In Psicomotricità si dice che si crea una relazione con la mediazione dell’oggetto, poiché l’oggetto nel suo rimanere integro sostiene la costruzione del pensiero e insegna le regole della relazione.

Da una parte la ripetizione dell’azione, come far cadere più volte il cucchiaio dal seggiolone, permette al bambino di sviluppare nel tempo una maggiore intenzionalità e la ricerca di un risultato pensato e immaginato.

Dall’altra l’azione diventa sempre più intenzionale e questo gli permette di scoprire la propria autonomia: “sono capace di usare la palla!”

Il bambino inizia a sentirsi forte, determinato e capace di creare e modificare autonomamente il proprio ambiente, o così pensa.

Purtroppo non è così semplice poiché la scoperta degli oggetti viene accompagnata dalla consapevolezza che non basta pensare o volere che la palla rimanga ferma vicino al piede, pronta per il tiro perfetto come il calciatore della propria squadra del cuore, perché, complice un pavimento sconnesso e la palla potrebbe rotolare via.

L’ambiente si svela, quindi, così com’è, pieno di ostacoli, sassi sulla strada, muri durissimi, porte che si chiudono o non si vogliono chiudere, giochi che si rompono e torri che cadono.

A volte diventa difficile tenere a bada le emozioni e la rabbia prende il sopravvento . Viene proprio voglia di rinunciare o di rompere tutto!

“Bisogna che il bambino incontri ben presto per molto tempo la resistenza dell’oggetto, la resistenza della materia ai suoi desideri. Bisogna che gli faccia per tanto tempo l’esperienza dell’opposizione del reale alla realizzazione dei suoi progetti., perché egli accetti la limitazione del suo potere, perché egli accetti la frustrazione.” (B. Aucouturier)

Lentamente il bambino scopre che nonostante l’ambiente e il reale lo mettano davvero alla prova, suscitando e alimentando la sua rabbia, il suo desiderio di provare e riprovare rimane integro fino ad arrivare ad avere la pazienza di rifare la torre che inevitabilmente ad un certo punto cadrà.

Il suo interesse si sposta dal desiderio magico di avere il controllo sull’ambiente al desiderio di conoscere l’ambiente così com’è. Da qui si inizia a diventare grandi e soprattutto curiosi di scoprire tutte le possibilità che il mondo mette a disposizione. Inizia la costruzione del pensiero che accompagna la capacità di immaginare senza necessariamente dover rifare l’esperienza pratica.

Il pensiero diventa astratto e la pazienza supporta il raggiungimento del risultato.

Il ruolo dell’adulto in questo momento della vita del bambino è molto importante, deve accogliere la rabbia scatenata dalla scoperta dell’oggetto trovando parole  rassicuranti che rendano più semplice l’incontro con l’insuccesso.

“Se le prime reazioni sono sovente delle reazioni di rivolta contro l’insuccesso, con l’aggressività distruttrice, ma poco a poco – a condizione che l’adulto non intervenga, né per giudicare, né per aiutare, dimostrare, spiegare – il bambino acquisisce la pazienza e la perseveranza che assicurano la costanza del desiderio attraverso le difficoltà di realizzazione.” (B. Aucouturier)

DIARIO DI BORDO DI UNA PSICOMOTRICISTA

Perché gli articoli di blog?

Ho pensato di stilare una lista di tutte le cose importanti che quotidianamente vivo nel mio lavoro con i bambini e i genitori.

Spesso, insieme all’osservazione del comportamento spontaneo del bambino mi pongo l’obiettivo di conciliare il tempo dell’adulto, veloce, logico ed emotivo con quello del bambino, curioso, a volte lento o caotico, come un disegno che prende vita sul foglio.

Mi sembra interessante soffermarmi sulla diversità dell’adulto e del bambino, sui loro bisogni e su un sentire che, a tratti, li pone molto lontani o troppo vicini, quasi sovrapponibili, creando, di fatto, un inciampo che rallenta il passo e che aumenta per entrambi la confusione e la frustrazione.

L’incontro fra le persone segue sempre delle regole non dette, estremamente importanti e molto precise, che permettono il fluire delle idee, la stesura, la realizzazione di progetti e la capacità di creare dei simboli che semplifichino la comprensione, come il disegno di una matita per indicare la matita stessa.

Portare i contenuti all’esterno è sempre un valido aiuto.

Ma per realizzare tutto questo non basta un’idea, né l’azione o l’istinto come non basta essere tanti o solo in due, servono gli elementi fondamentali che costituiscono la base delle relazioni.

L’incontro è sicuramente motivato da un bisogno istintivo, dall’impulso che determina la spinta verso l’altro. Ma perché l’istinto si trasformi in consapevolezza è necessario porre la giusta attenzione alle regole che definiscono la relazione e che nel tempo diventano la nostra cifra stilistica.

Partiamo dal desiderio che ci permette di imparare superando un ostacolo dopo l’altro.

E poi ci possiamo occupare di valutare la distanza che ci separa dall’altro, di trovare il tempo giusto, di scegliere il tono di voce senza dimenticare di coinvolgere emozione e respiro.

E infine di valutare la punteggiatura che segna l’inizio di una danza fatta di avvicinamenti e di allontanamenti successivi.

Sono tutte pause, in pratica.

Perché, in ogni contesto, è proprio grazie alle pause che si riconosce il contenuto e il senso.

Piccole separazioni fra una parola ed un’altra, fra una nota e l’altra, fra un oggetto e l’altro.

Impercettibili

si, a volte lo sono; come il respiro che accompagna la lettura delle storie o come le pause fra le note sul pentagramma che creano l’opera, impercettibili ma fondamentali. E mentre il bambino è attentissimo e catturato da tutti questi elementi apparentemente poco importanti, l’adulto tira dritto e si preoccupa delle parole e del loro significato, del movimento e di come il bambino risponde allo stimolo.

Due mondi distanti

che si incontrano e si scontrano nella ricerca di riconoscersi simili, anche se tanto diversi.

Il mio lavoro è proprio questo.

Ho imparato a guardare le piccole cose e a sottolinearne l’importanza e la bellezza. Osservare un bambino impegnato ad imparare è sempre emozionante. Lo è anche vedere lo sguardo dei suoi genitori che, guardandolo, ripercorrono parte della loro storia. I ricordi, gli sguardi e le parole fanno riaffiorare una competenza innata che velocemente permette loro di vedere e comprendere un linguaggio solo apparentemente dimenticato.

E se si trova un linguaggio comune diventa più facile conoscersi.

Si svela, finalmente, la finalità dell’incontro, nel quale ognuno porta sé stesso, il genitore insegna la rassicurazione e il bambino insegna la meraviglia delle piccole cose dimenticate.

Ora si può procedere con lo stesso passo e quando ci si perde nei pensieri basta uno sguardo per tornare a sentire l’altro nella relazione che diventa contenitore condiviso.

Imparare ad imparare.

Il mio lavoro si potrebbe riassumere così.

“L’infanzia costituisce l’elemento più importante della vita dell’adulto: l’elemento costruttore. Il bene o il male dell’uomo nell’età matura è strettamente legato alla vita infantile da cui ebbe origine.”    M. Montessori